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Elettromusic. Sulle tracce di Audiofly

Elettromusic. Sulle tracce di Audiofly

Tra i gruppi di maggiore successo della scena europea, il progetto nasce, nel 2001 a Londra, grazie alla creatività di Luca Saporito e Antony Middleton. In questa intervista, il primo ne delinea il percorso, passando dalla creazione di Supernature, l'etichetta che dà spazio ai più talentuosi

Audiofly è tra i gruppi di spicco dell’Elettromusic. Nasce in Inghilterra, nel 2001, ma da qualche tempo fa base, a Barcellona, ed è in stretto rapporto con la scena di Berlino. Supernature invece è il nome della loro etichetta, un progetto più ampio che ha l’obiettivo di dare spazio e visibilità a gruppi emergenti di un certo livello. Luca Saporito, (uno dei due soci del progetto) ci  racconta origini e prospettive.

Come è nato il progetto Audiofly? «E’ nato con il mio socio Antony Middleton (Londra). Lui era coinvolto con la scena inglese già da alcuni anni e io in quel periodo, fine anni Novanta, incominciavo a suonare. Il primo prodotto è stato fatto per la “Fantastic House”, una label Inglese che è stato poi suonato da alcuni dj importanti della scena mondiale (vedi Sasha – ndr). Poi sono arrivate proposte dalla “Save” di Nick Fanciulli e dalla “Peace division” di Clive Henry, e ci siamo lanciati prima sul mercato inglese e poi su quello mondiale. Audiofly ha sfondato a cavallo tra il 2003 e il 2004».

E perché il nome Audiofly? «Un giorno in studio dovevamo trovare un nome per un remix e cercavamo qualcosa che connettesse il mondo della disco anni ‘80 con il mondo della scena-danza attuale, quindi abbiamo pensato a qualcosa di originale ed è venuto fuori “Audiofly”».

Come vivi questo momento in cui i controlli e i limiti delle forze dell’ordine sono così forti? «È una questione politica! Ci sono persone che stanno provando a limitarci dall’essere noi stessi e in mezzo c’è il governo. I controlli della polizia li comprendo benissimo, è giusto che ci siano. Però serve il cervello anche per andare in discoteca  ed eventualmente usare sostanze. Serve una certa logica. Chiudere il locale perché certa gente esagera è una cosa troppo drastica, ed è importante capire che il locale dà lavoro al paese in cui ha sede, dà lavoro a chi ci lavora, fornisce turismo e soldi alla regione in cui si trova. La soluzione ideale è essere più tolleranti. Tu ragazzo, che bevi o assumi droga, non andare in macchina. La cosa ideale, oltre alla sensibilizzazione, sarebbe quella di fornire aiuti. I comuni in Italia hanno stabilito di mettere i club fuori da paesi e città, però non forniscono i mezzi per arrivarci. Il governo dovrebbe venirci incontro e fornire le strutture per frequentare i locali. Quando cerchi di proibire qualcosa, i giovani trovano sempre i modi di evadere i limiti che tu, governo, poni. Il proibizionismo non funziona perché cercano di imporre leggi e regole a cui, dentro di te, non vuoi obbedire. Sai di essere una persona che può fare ciò che vuole e se cercano di limitarti trovi il modo di farlo ugualmente. Bisogna guardare a soluzioni in un altro modo, nell’ottica di aiutare a capire. Ad esempio, l’uso di droghe, la responsabilità di guidare un auto e mettere a repentaglio la vita di qualcun altro. Bere, assumere stupefacenti e andare al voltante non vanno d’accordo, però andare in discoteca e divertirsi non fa male a nessuno. Tutto il mondo è uguale. Le risorse che si spendono per evitare ai giovani di divertirsi, potrebbero essere spese a sensibilizzarli e renderli coscienti. In Portogallo hanno legalizzato le droghe e il crimine e l’uso è sceso del 34 per cento, qualcosa di giusto l’avranno pur fatto! Lì, le energie della polizia si concentrano sulla lotta ai grandi spacciatori».

Credi che la scena elettronica possa essere in qualche modo limitata da queste scelte di potere?«Il problema è di natura politica, droghe o non droghe, e i giovani vorranno sempre divertirsi. Si deve aiutare la gente a capire, si devono fornire i mezzi e le conoscenze senza mettere i bastoni tra le ruote ai club. La scena internazionale soffre sia per l’economia che per le politiche contro i gestori della notte, i dj, i proprietari, gli organizzatori, i pr, eccetera. Per riuscire a vincere la battaglia della notte, bisogna lavorare di giorno con le persone che cercano di proibire quello per cui noi siamo nati e comunque siamo artisti, siamo persone che credono a questo mondo che esiste!».

Parlaci dell’etichetta “Supernature”.

«”Supernature” è nata a Londra e ha preso vita dal desiderio di dare la possibilità ad artisti non molto conosciuti di entrare nella scena musicale. Il primo disco fu di un ragazzo messicano che si chiama Roby, e il remix fu di Luca Bacchetti. La prima uscita di questo disco ha venduto 2mila 500 copie, ancora oggi vende ed è arrivato a 4mila! Come primo disco ha lanciato molto bene la label. Da lì la gente ha cominciato a mandarci demo e oggi collaboriamo con artisti come Alex Niggermann e Amelie, due ragazze di Londra, Boris Werner dall’Olanda o Ali Nasser, dalla Romania. I brani hanno venduto e sono stati suonati sulle chart di dj del calibro di Luciano, Clive Henry, Laurent Garnier. Nel complesso sono un gruppo separato ma che suona lo stesso tipo di musica e che comunque ci ha dato modo di credere in questi giovani che produciamo».

Cosa vi spinge nella selezione degli artisti da produrre. «Il suono della label è deep di nascita ma solitamente ci basiamo sulle sonorità dell’house classica con  nuovi metodi di produzione. Prendiamo l’house degli anni Novanta, che suonava magari Tony Humpris, cioè con il beat classicamente house, ma risuonate con uno stile più innovativo, con suoni tribali, una buona bass line che dia spinta al pezzo. Lo stile che al momento stanno suonando anche Luciano o i dj  più affermati nella scena; la nostra musica deve avere un cuore e un’anima! È questa la base che porta “Supernature” ad essere molto stabile».

Parliamo della musica che suonate e di tutte le sottocategorie i cui confini, tra un genere e l’altro, sono quasi inesistenti. «I nomi e le categorie li danno le persone. Io la vedo come una musica buona o non buona. L’unica differenza dovrebbe essere, tra la musica commerciale e quella non commerciale. C’è un diverso approccio di vendita tra i due “generi”; certi suoni riscontrano più di successo nei club di tendenza, mentre altri pezzi hanno più riscontro in radio o nei negozi. Le sotto categorie, secondo me, sono utili ad ampliare comunque un dj set, dove puoi passare dalla tech-house, all’house, alla deep o alla tecno. La differenza sta tutta nel suono della cassa o di un arrangiamento. Non è questione di stile ma di bellezza dei suoni. Ci sono molte etichette e tantissimi produttori che stanno cercando di copiarsi l’uno con l’altro. La cosa più importante, in questo momento, è darsi una identità. Il segreto è che un pezzo, quando è pronto per essere lanciato, deve essere rivisto ancora per un po’ in studio per essere ritoccato e reso speciale. Una caratteristica importante è che ogni nazione, ogni posto, ha i suoi suoni particolari. Questa è una cosa bella e quando compro dischi trovo un mare di musica bella perché secondo me, nell’universo di produttori, trovi sempre quello con cui ritorni sempre. Lo senti la prima volta e ci torni! Luca (Bacchetti – ndr) secondo me è stato uno tra quelli che ha avuto una crescita molto fluida. Dagli inizi più minimali, alle produzioni un pò più spinte, sta divenendo più house, e non cerca mai di essere di tendenza, pensa nella sua testa il pezzo e sa già  come farlo».

Ci sono, secondo te, suoni che legano le produzioni tra i diversi paesi?«La cosa più importante sono i mezzi che usi per produrre. I suoni sono sempre più o meno uguali. Sta al produttore trovare suoni diversi tra i produttori. Anche se la base è uguale sono i suoni a fare la differenza. In quanti milioni di modi può essere suonato un pezzo regala comunque un modo originale di leggerlo. Lo standard è a momenti, va di tre anni in tre anni».

Riesci a fare una proiezione delle prossime produzioni di tendenza? «Dipende dal produttore giovane che decide di stare a casa a lavorare i suoi brani più tempo di quanto richiesto per trovare qualcosa di originale. Fino ad oggi l’house ha sempre funzionato. Nel futuro ci sarà un house ancora più lenta, più sexy, con un occhio alle donne e molti più vocali cantati. Il 2010 sarà l’anno dei vocali originali, non dei campioni, ma dei cantati veri, registrati in studio, fatti con anima e molto deep. Inoltre, sono convinto che in Italia abbiamo bisogno di una stazione radio che propone questo genere. Al momento i giovani non sono attenti alle differenze. I ragazzini sono imboccati e non fanno il salto avanti per cercare nuova musica o produrre qualcosa che in giro non si sente».

Se c’è, che tipo di concorrenza si crea in questa scena? «La concorrenza c’è ma quasi non si vede. Più che chiamarla concorrenza la chiamerei “una sfida a chi riesce a prendere un certo cache e a chi suona nel club migliore”. Per me e per Antony, non esiste questa sfida! La cosa più importante è unirsi con gli amici, suonare la musica che preferisci e seguire il tuo cammino. La cosa importante è che quando sei su quel gradino in più e hai quel passo in più diventi un professionista. Secondo  me la concorrenza si sente molto in Italia, mentre quando suono in giro (all’estero) trovo sempre una buona accoglienza anche da parte dei dj residenti».

Parlaci dei vostri prossimi progetti. «Stiamo lavorando ad un’uscita per Nick Curly: saranno due dischi, possibilmente con due remix. Abbiamo fatto due brani con Anthony Collins, che usciranno a dicembre per la “Supernature”. Abbiamo finito una traccia, “Sweet and then”, remixato da Chris Lattner dall’Inghilterra e da Boris Horel, un francese della nostra label. A settembre ne usciranno i remix. Stiamo lavorando anche su un album che non è strettamente dance music ma anche più down-tempo, qualcosa da ascoltare in macchina o a casa dopo il club e abbiamo anche due pezzi, molto interessanti, da ascoltare al sun-set. Secondo me la gente deve ascoltare più musica e non solo dance. La musica è globale, tra gli svariati generi che esistono al mondo devi trovare un filo comune, che è poi quello che stiamo cercando di fare anche noi».

 

 

 

 


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