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“Sud ribelle”. La profezia dell’avvocato..!

“Sud ribelle”. La profezia dell’avvocato..!

COSENZA. L’arresto dei No-global stava per calamitare le luci dei grandi media. A pochi metri dalla Questura qualcuno già sapeva, ma in pochi lo avevano preso sul serio. il giovane professionista fu creduto solo qualche ora dopo quando le teste di cuoio, in quel 15 novembre 2002, entrarono in azione portando via una ventina di militanti del movimento

“Voi non avete neanche lontanamente idea di quello che sta per accadere in questa città…”

La frase di un giovane avvocato, emessa in un gemito di rabbiosa indignazione, alle 5 del mattino, davanti ad un cappuccino, nel bar a pochi metri dalla questura, fu quanto mai profetica. I poliziotti tendevano a minimizzare. In poche ore, l’avvocato avrebbe avuto ragione. Cosenza, in quel 15 novembre 2002, si preparava a svegliarsi in prima pagina, o perlomeno s’apprestava ad esserlo.

L’arresto dei No-Global stava per calamitare le luci dei grandi media. Negli anni precedenti, solo il sindaco Giacomo Mancini era stato capace di attirare intorno a questa città medio-calabra l’attenzione delle maggiori testate nazionali.

Stavolta, invece, i cronisti del resto d’Europa, e persino quelli americani, si sarebbero affacciati sulla scena locale, pur di raccontare quello strano caso di persecuzione politica e giudiziaria ai danni di venti esponenti del movimento.

Prima ancora che i cosentini potessero accorgersi di quanto stesse accadendo, furono i concittadini emigrati ad informarli, avendo letto televideo e ascoltato i primi Gr mattutini. Una commerciante di via Alimena racconta di quando suo figlio, emigrato a Milano per motivi di lavoro, la svegliò alle 6 e trenta del mattino per dirle che a Cosenza avevano arrestato un sacco di gente conosciuta, compreso un suo vecchio compagno di scuola.

Alle 8, il Sindaco Catizone telefonava già ai parenti di alcuni arrestati, informandoli della sua piena disponibilità ad assumere qualsiasi posizione a favore dei militanti incarcerati.

In mattinata, giovani dell’Azione Cattolica si precipitavano in Curia: “Monsignore, Monsignore, la polizia ha imprigionato quei ragazzi che sono venuti a trovarla un mese fa. Si ricorda? Avete trascorso un pomeriggio insieme, parlando di come affrontare e risolvere i problemi degli immigrati della nostra città”.

L’Arcivescovo Agostino non si fece prendere alla sprovvista. Giusto il tempo di leggere le carte, e partì all’attacco, smascherando l’assurdità dell’iniziativa assunta dalla Procura cosentina. Sempre nelle stesse ore, a fare anticamera per conferire urgentemente con Monsignore, c’era uno scatenato Padre Fedele Bisceglia, frate francescano missionario, grande conoscitore della piazza cittadina e dei giovani che la animano.

Intanto, il tam tam scattava nelle scuole, all’università della Calabria, nei quartieri. Negli uffici pubblici, nei bar, quella mattina non si parlò d’altro, fino a quando il Tg1 non aprì l’edizione delle 13,30 con la notizia degli arresti.

Da quel momento in poi, si è messa in moto una macchina spontanea, di cui non è facile ricostruire le leve fondamentali, senza ripercorrere la storia recente della città sociale. Di certo, osservato da questa prospettiva d’analisi, alla vigilia degli arresti, il panorama si presentava tutt’altro che dinamico e vivace.

 

Il quadro politico-organizzativo. Le realtà dell’associazionismo presenti per tutti gli anni Novanta in città, vivono, a partire dalla fine del decennio, una fase di apparente stagnazione, dovuta ad innumerevoli cause.

Le istanze del movimento globale trovano, comunque, terreni di visibilità nell’area urbana, ma si tratta di una fenomenologia da riflesso, piuttosto statica, tendente all’emulazione e ad una piatta iterazione di meccanismi importati ed identità “forestiere”. Militanti e simpatizzanti agiscono per onore di firma; sentono di dover mantenere un legame semantico con le lotte complessive e, nello stesso tempo, non intendono estinguere la griglia di relazioni che da tempo li lega ai vari punti di riferimento disseminati nel resto d’Italia. Le famigerate “diverse anime” del movimento camminano lacerate anche a Cosenza. Sono “scuole” chiuse, arroccate. Spesso litigano su questioni di forma, si scontrano in nome dei confini che separano effimere categorie dell’immaginario politico.

Sarebbero capaci di discutere, senza costrutto, per interi pomeriggi, sulla questione se valga la pena erogare un “reddito di cittadinanza” o un “salario sociale” ai disoccupati, oppure se sia il caso di “legalizzare” o “liberalizzare” le droghe leggere, pur trovandosi in una condizione di siderale distanza dai luoghi e dalle sfere effettuali dei processi decisionali.

Tuttavia, un discreto attivismo è palpabile. Ma è da considerarsi più come un’adesione morale, che una partecipazione realmente consapevole.

Nonostante una discreta continuità sul piano delle iniziative pubbliche, i centri sociali, le radio, i circoli ed i luoghi alternativi della sinistra, pagano il prezzo di un isolamento sia geografico, sia organizzativo. Vivono all’ombra del “mancinismo”, a tratti lo contestano, ma attraverso un informale sistema di relazioni con le soggettività che all’interno dell’alveo manciniano hanno trovato spazi e strumenti di espressione, ne assorbono quella minima linfa vitale che consente loro di rigenerarsi.

Qualsiasi ipotesi progettuale o conflittuale, finisce in un vero e proprio gorgo.

Se a partire dal ’90 in poi, a Cosenza abbiamo assistito all’affermarsi della battaglia per gli spazi sociali, seguita da un’indiscutibile vitalità delle realtà di movimento, il biennio conclusivo del medesimo decennio rivela una palese avarizia di suggestioni e propositi concreti di rilanciare credibili campagne sui diritti. Nessuno riuscirà a mobilitarsi contro quelli che l’Arcivescovo Agostino definisce, sempre nella stessa frazione temporale, “i poteri forti della città”.

Fa eccezione il caso della “Casbah”, l’attuale Casa dei Migranti, che, nel riflusso generale, mantiene saldo un telaio di relazioni con le istituzioni locali ed il volontariato cattolico, foriero di produzioni sociali ed attività a carattere solidale. La “Casbah” è l’unico vero gruppo rimasto. Si basa su un agire comunitario che presuppone un progetto. Ed è per questo motivo che resiste.

Si arenano, invece, nelle secche della ripetitiva ricerca di un’improbabile nuovaacquisizione d’identità, i centri sociali “Gramna” e “Filo Rosso”, radio Ciroma, la locale Federazione del Partito della Rifondazione Comunista e tutte le micro-organizzazioni affiorate nel vuoto generato dalla crisi del rapporto tra i cittadini e le varie sinistre possibili.

Emergono, in talune circostanze, modalità di espressione politica miranti alla destituzione del consenso maturato dai partiti storici. È il caso, per esempio, della galassia di associazioni e gruppi che si originano intorno e contro i Ds, su iniziativa di ex iscritti, sindacalisti ed intellettuali, la cui collisione con il gruppo dirigente locale del partito, appare irreversibile.

 

La rottura con la Quercia. D’altronde, la frattura con i movimenti giovanili di critica all’esistente, rappresenta solo la manifestazione più evidente di un progressivo ed ineluttabile scollamento con i contesti periferici, le sezioni un tempo rigogliose in presila, i circoli eclissanti dei quartieri.

La separazione, già di fatto consumatasi nel corso di tutto il decennio, diviene traumatica e conflittuale nel ’99, nella fase storica della guerra in Kosovo, quando a seguito di alcune manifestazioni di protesta, avvengono scontri verbali, fisici e giudiziari tra militanti dei centri sociali autogestiti ed esponenti del gruppo dirigente locale della Quercia.

Tali episodi non saranno privi di ripercussioni sulla trama dei rapporti politici e sociali. La Questura, infatti, successivamente all’occupazione della sede dei Ds cosentini da parte di alcune decine di manifestanti che si oppongono ai bombardamenti nei Balcani, nel giugno del 2000 procederà alla schedatura fotografica e digitale di tutte le persone presumibilmente coinvolte in quella clamorosa forma di protesta.

I militanti dei centri sociali ricondurranno il gesto repressivo ad una precipua volontà del gruppo dirigente Ds, ed assumeranno l’evento come qualcosa di estraneo alla rituale recente dialettica dei rapporti tra partiti e movimenti, un atto di “tradimento e delazione” nei confronti di questi ultimi, a testimonianza di un clima di reciproca ostilità tra il partito e gli aggregati di base, somigliante per certi versi al ben più vasto ed articolato dissidio che oppose, anche a Cosenza, per tutti gli anni settanta, il Pci all’area dell’Autonomia.

Nell’improvvisata trincea scavata dall’incomunicabilità, si inseriscono associazioni come la “Pisacane”, “Azione Critica” e “Cittadinanza Attiva”, progettate e varate, appunto, da soggetti più anziani, che nella sinistra istituzionale erano cresciuti, ma da essa avevano scelto di allontanarsi, spinti da motivazioni di natura etica.

Tra di loro, probabilmente, molti coltivano la speranza di sostituirsi ai quadri dirigenti del partito, sviscerandone gli elementi di maggiore vulnerabilità politica e morale. Queste associazioni non mirano ad egemonizzare il rapporto con i movimenti, bensì pongono questioni di democrazia e contestano le dinamiche di realizzazione dei processi partecipativi in coincidenza di scadenze elettorali.

 

L’emorragia del Prc. Anche Rifondazione comunista, nel periodo che precede il G8 di Genova, subisce una drammatica emorragia di giovani. Durante la fase di crisi dei centri sociali, la federazione di piazza Riforma aveva assorbito numerosi ragazzi che, privi dei consueti punti di riferimento, sceglievano di iscriversi al partito. La tendenza dirigistica dei vertici territoriali era, tuttavia, destinata a rivelarsi repellente verso le forze fresche che pure avevano contribuito a riempire le stanze del locale circolo.

I giovani chiedono a più riprese di poter concorrere alle principali scelte strategiche, stimolando dibattito, riflessione, critica. Questo atteggiamento è interpretato da segretari e capi di sezione come un’autentica minaccia.

La situazione di incompatibilità tra “vecchi” e “nuovi” si risolve presto, ovviamente, a favore dei primi, i quali un bel giorno, di buon mattino, decidono di cambiare la serratura del portone della sede. È un atto decisivo, che determina un piccolo esodo.

I giovani abbandonano il partito e non vi ritorneranno più. Non sceglieranno, comunque, di approdare ai centri sociali, dove l’afasia comunicativa, nel biennio in questione, riduce qualsiasi ipotesi progettuale ad una piatta autorappresentazione.

Il “Gramna” vive un ripristino delle attività funzionali, dopo un triennio di sostanziale immobilità. La ristrutturazione dei locali, l’avvio di una palestra popolare e la riformazione di un gruppetto di gestione, non bastano a colmare la voragine politica generatasi all’indomani della disgregazione del collettivo che aveva precedentemente conquistato l’edificio dell’ex Villaggio del Fanciullo. Non si prospettano nuove aperture al territorio, essendo il neonato gruppo impegnato a ripristinare l’agibilità dei locali. Eppure, progetti come la Palestra popolare e la Sala prove rappresentano aspetti sostanziali di una continuità ideale con il passato: il “Gramna” era nato per costruire dal basso un modello diverso di socialità e cooperazione. É su questi binari che deve continuare a viaggiare. I suoi rifondatori lo sanno bene.

 

Filo rosso e Rettore. Nell’università della Calabria, intanto, si conclude l’annosa vertenza tra Rettore e Filo Rosso, quando sotto le ripetute minacce di sgombero, quest’ultimo decide di riparare nei capannoni sottostanti il polifunzionale di Arcavacata, ed abbandonare gli spazi occupati nel 1995, in attesa che l’amministrazione provveda a varare un progetto che comporti il riconoscimento di quelle lotte e l’affidamento dei medesimi spazi, ristrutturati, alle associazioni in essi generatesi nel quinquennio di occupazione.

In questo caso, la volontà progettuale del corpo militante rimane solida, ma il trasferimento nei capannoni relega la struttura in una sorta di autoemarginazione. È vero che al suo interno trovano prosecuzione e spazio di espressione due compagnie teatrali giovanili di ricerca, che procederanno autonomamente alla ristrutturazione dei capannoni, ma è innegabile che questa operazione avvenga fuori dal gruppo di gestione del Filo Rosso, a causa di aspri contrasti. Si tratta di un prolifico divorzio, e non di uno sterile matrimonio.

 

Radio ciroma. Il connubio con le avanguardie culturali era stato tanto cercato per tutti gli anni Novanta da un’altra realtà associativa presente nell’area urbana: radio Ciroma.

Animati dalle teorie sul municipalismo, che Franco Piperno ha partorito all’inizio degli anni Novanta e i movimenti del Nordest hanno messo in atto e rielaborato in chiave conflittuale, i ciromisti inseguono a lungo l’ipotesi di consolidare un rapporto dialettico con i quartieri e sperano che Mancini si accorga delle potenzialità insite nella radio.

Nei fatti, la situazione rimane immobile e la radio rischia seriamente la chiusura, avendo accumulato un vertiginoso debito con la proprietà dell’appartamento in cui ha trovato sede. La rinascita, nel ’98, di una miniredazione che produce informazione locale, e l’avvio di alcuni progetti che dovrebbero collegarla ad importanti network di movimento, mantengono viva la frequenza, ma finiscono per passare quasi come episodi isolati, privi di un reale radicamento, alla luce della sostanziale smobilitazione dell’area socio-culturale che di Ciroma era stata iniziatrice.

 

Il blitz. Ciroma, Gramna, Filo Rosso, dunque, sono membra disgregate, quando la mattina del 15 novembre 2002 il mondo sembra crollare su questa città. Ovviamente, in un momento così drammatico, i processi di frazionamento dell’area militante passano in secondo piano.

Tutti si sforzano di apparire uniti, ma nelle pieghe della mobilitazione, quando i riflettori sono adombrati, le abituali beghe riemergono e a tratti sembrano compromettere la riuscita delle manifestazioni.

Come già rilevato, la notizia degli arresti non si propaga secondo un modello simmetrico. Raggiunge contemporaneamente il centro e le periferie.

Le coscienze militanti, ovviamente, sono le più tramortite. Amici e compagni in carcere, abitazioni, uffici e luoghi di aggregazione perquisiti, decine di indagati e un’inquietante voce che circola in città: presto nuovi arresti.

Alle 9 del mattino, le prime telefonate da Radio Onda Rossa, Sherwood e le altre emittenti antagoniste sparpagliate sul territorio nazionale. La voce di Francesco Febbraio, storico speaker di Ciroma, carica di commozione e sgomento, risponde alle interviste degli altri cronisti. È un appello disperato, il suo, che sembra fuoriuscire da un buco nero della storia, da un angolo di qualche paese appena stravolto da un colpo di Stato: “Carabinieri e poliziotti incappucciati, armati di mitra, hanno sfondato le porte delle case dei compagni, li hanno portati via nella notte, non sappiamo in quale carcere siano ora reclusi…”.

In poche ore, spontaneamente, prendono forma due poli di concentrazione della protesta contro gli arresti. Militanti, famiglie, avvocati, amici, semplici curiosi, cittadini preoccupati, si ritrovano nella sede di Rifondazione Comunista, in piazza Riforma, e presso i dipartimenti di Sociologia e Scienze Politiche dell’Università della Calabria.

Assemblee si susseguono a ripetizione, mattina e pomeriggio. In serata, dopo una nuova affollatissima adunata nel cinema “Italia”, i manifestanti decidono di uscire in corteo e bloccare la seduta del Consiglio comunale. Trovano l’assemblea compatta nel dare solidarietà alle venti persone incarcerate. Tutti si danno appuntamento per il giorno dopo, per un primo sit-in, sotto il Tribunale, dove arrivano tantissimi cosentini.

Il meccanismo che porta migliaia di persone ad aggregarsi, segue un modello di contrazione ed espansione. Sono soprattutto i contatti informali, l’internità degli arrestati e dei manifestanti alla società civile, a rendere densa e massiccia l’indignazione generale. Nella sede di Rifondazione, calano i leader nazionali: Piero Bernocchi e Gianni Fabris; ad Arcavacata, quartier generale di Casarini e Agnoletto, la temperatura aumenta, quando docenti di provata autorevolezza tuonano contro la Procura di Cosenza.

Al di là della grande eco assunta dalla vicenda, risulta interessante indagare lo stato dei rapporti tra le varie realtà locali, ma soprattutto la natura delle aggregazioni spontanee, dei poli “non ufficiali”, in cui si concentra la protesta.

 

La reazione ultrà. Gli ultrà del Cosenza sono tra i più indignati. Tra gli arresti, almeno due sono riconducibili direttamente all’universo della curva “Bergamini” dello stadio San Vito. I Supporters e gli altri gruppi del tifo organizzato prendono un’iniziativa autonoma. Scelgono come punto di riferimento la storica Villa Vecchia e il Centro sociale “Gramna”.

È in questi luoghi che si radunano centinaia di giovani abitualmente estranei alle prassi ed ai linguaggi della politica. Non si tratta di “militanti”, bensì di “smilitanti”, soggetti riconducibili alle categorie dell’identità multipla, l’autonomia diffusa, la biopolitica.

Mentre tra le “strutture” della sinistra sociale ed istituzionale si sviluppa un velenoso dibattito su dove dovrà tenersi la manifestazione di sabato 23 novembre, e su quali sigle potranno firmare il manifesto della mobilitazione, gli ultrà hanno già deciso tutto, stanno raccogliendo fondi per confezionare gli striscioni, preparano una colletta per le spese legali, stampano materiali di propaganda. Analogo fenomeno si verifica in area cattolica, dove i ragazzi dell’Acr e i volontari dell’Oasi francescana trovano nella Curia arcivescovile un solido polo informale di raccolta, riflessione ed iniziativa.

Saranno queste manifestazioni di umana ed esistenziale indignazione a produrre il senso di smarrimento negli uffici del Tribunale di Cosenza. Mentre nel movimento si ragiona alacremente sul terreno delle dinamiche intergruppi, il seme della protesta attecchisce nelle famiglie, sui luoghi di lavoro, nei quartieri. Il capo della Procura, dottor Serafini, non potrà fare a meno di esclamare, davanti e milioni di telespettatori: “Mi sento isolato”.

 

Tratto da un’intervista rilasciata nel febbraio 2004 ad Anna Curcio per “La paura dei movimenti”, Rubbettino Edizioni.

 

 


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