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Berlinale 2016. Fuocoammare vince l’Orso d’Oro

Berlinale 2016. Fuocoammare vince l’Orso d’Oro

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Gianfraco Rosi e Meryl Streep

BERLINO –  “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi vince l’Orso d’Oro del Festival del cinema di Berlino 2016. Un altro grande primato per Rosi che a Venezia  aveva vinto il Leone d’Oro con “Sacro GRA”, primo documentario a ottenere un premio così prestigioso. Le sue immagini –  ha detto Meryl Streep annunciando il premio – “hanno raggiunto il cuore della giuria”.

Unico italiano in gara il film di Gianfranco Rosi, Con Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane, Maria Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino e Maria Costa, aveva già proiezione un’ottima accoglienza dalla stampa internazionale presente a Berlino,  segnando come un film sul “confine simbolico” d’Europa – in un’edizione sotto l’ombra della emergenza profughi – fosse particolarmente atteso. In una avvertenza forse non necessaria, dobbiamo sapere di non trovarci di fronte alla visione di un classico  film-documentario su di “una tragedia epocale”.

Per comprendere appieno il film (e i film) di Gianfranco Rosi dobbiamo ricordarci di uno sguardo lontano del metodo dell’inchiesta giornalistico-televisiva costituita dalla calligrafia di immagini tragiche ancorate ad un impianto tematico-ideologico. Come ha ribadito il regista, è un’opera  “politica come qualunque film” ma in grado  di testimoniare – nell’epicentro del clamore mediatico – un’apocalisse umana in corso; seguendo il suo metodo di totale immersione l’autore scompone il fenomeno e su questo ne costituisce la narrazione.

Fuocoammare_di_Gianfranco_Rosi_02Uscito in questi giorni “Fuocoammare” è una sfida narrativa che va ben oltre i numeri che quotidianamente crediamo di ascoltare e leggere. Lampedusa oggi e i lampedusani del luogo o acquisiti – connessi alla vita e alla natura – sono narrati con piglio documentaristico e sottigliezza narrativa, in un mosaico apparentemente alienante di  immagini di usuale quotidianità  e di stragi umanitarie, in bilico (a volte spericolato) su e contro la  gratuità della narrazione. Il titolo, oltre che un’omonima canzone siciliana ascoltata nel film, ricorda il termine “fuocoammare” come i marinai-pescatori in tempo di guerra definivano le acque spezzate dalle navi militari. Lampedusa è la più grande fra le minuscole isole Pelagie: poco più di 20 chilometri quadrati e poche migliaia di abitanti, terra di vacanze e di pescatori. Sappiamo come la parola “isola”, derivi dal latino insula (in-sula) e da sàlos in  greco:  cosa che sta in mezzo ai flutti agitati. Il regista, qui ha passato più di un anno e proprio l’invito a partecipare al festival tedesco è arrivato mentre Rosi – sull’isola- stava terminando il montaggio.

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La locandina del film

“Siamo tutti responsabili di questa tragedia laddove non viene fatto nulla di concreto per evitarla” dice Rosi, che ha voluto filmare la quotidianità di chi vive (in)direttamente il fenomeno fornendo accoglienza e un primo aiuto ai migranti; I lampedusani – dice sempre il regista – sono eccezionali, fanno il possibile per salvare naufraghi che approdano sull’isola, ma la responsabilità di quelle oltre 40mila persone morte in mare è politica”. Nell’isola che (non) c’è, nel documentario, l’utopia da curare passa attraverso Samuele e Bartolo i due i personaggi del Kairos che vivono nel lembo di una “porta d’Europa”. Nel raccontare la tragedia con lo sguardo di un bambino, il 12enne Samuele, questo ci  accompagna alla scoperta dell’isola quotidiana lontana e separata dal centro di accoglienza dei migranti.  E’ sfrontato ma ha il mal di mare e sembra – nella sua incertezza – il confine di Lampedusa stessa; nel confine tra infanzia ed adolescenza il passaggio doloroso sarà la “messa a fuoco”.

Come uno scritto di Twain osserviamo una sorta di  racconto di formazione: non ancora pescatore ma con con una benda da pirata ci mostra con la metafora dell’occhio pigro, metafora della nostra politica, un difetto di empatia che ha bisogno di ri-educazione per ri-dare una nitidezza allo sguardo europeo. Il suo lamento col medico Bartolo che lo visita appare come il nostro essere pazienti di fronte a quel che accade, altra dimensione molto più tragica del timore del ragazzo, davanti a cui anche il possedere parole non riesce ad esprimersi. Il regista inquadra e alterna vita e morte proteggendosi in questo modo da un probabile compiacimento estetizzante. A fare da letterale cucitura  è il  dottor Bartolo, che si occupa personalmente di curare-visitare le persone approdate.

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Il regista Gianfranco Rosi

Bartolo, unico medico di Lampedusa  prova a “svuotare il mare” dalla morte ma è sempre lontano dal cinismo della statistica (che scheda o raccoglie i profughi del mare) conservando intatto il senso di cura di un Ippocrate che porta nelle sue parole  ogni volta il dramma interiore dei morti arrivati.  Non vediamo un documentario sull’immigrazione ma  uno stato d’animo che forma un mosaico che seppur travestito da documentario conferisce forma alle cose, scena di un flusso migratorio tragico e inarrestabile. Davvero tante le sequenze che rimangono impresse nella memoria, tra tutte la canzone che i migranti improvvisano all’interno del centro di accoglienza, una litania che racconta l’esodo, il dolore ma che il  ritmo muove a consapevolezza di essere riusciti a fuggire dalla guerra. In altre parole l’origine di un salmo, di un canto religioso, fondamento di ogni nuovo testamento. Libero anche dall’artificio di una forte colonna sonora, Rosi muove con pudore la morte pur descrivendone con sincerità la brutalità e la  durezza. Questi continui ossimori o deturnamenti possono sfociare in maniera ma questo viaggio è sulla rimozione. Sulla nostra rimozione che nel rapporto tra “cultura e civilizzazione” ci riporta a Kant.

In un’isola di indifferenza e responsabilità per ciò che (non) vediamo.

Dal nostro inviato Marco Guarella


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